Il racconto di Ima
Foto credit: La Repubblica
Uomo all'improvviso
Sono il primo maschio di casa e questo porta con sé un bagaglio pieno di responsabilità. Sono delle regole non scritte. Papà era proprietario di un terreno ereditato da suo padre. Mamma è una donna di mercato, vendeva quello che papà raccoglieva dal suo terreno agricolo. Siamo una famiglia di 7 persone. Per fortuna non ho fratelli da altre mamme, com’è di norma nella maggior parte della Nigeria, due o tre mamme, un solo papà. Conoscendo persone che provengono da una famiglia del genere, so che le dinamiche sono molto diverse. Ci sono aspetti piuttosto negativi e spesso anche delle mancanze di attenzione nei riguardi dei figli.
Crescere in Nigeria non è facile per una grande fetta della popolazione. A volte ripenso alla mia infanzia, da bambino ero molto felice. Passavo tanto tempo coi miei genitori, aiutavo mio padre nella fattoria e, quando necessario, accompagnavo mamma al mercato.
È cambiato tutto quando è morto mio padre. All’improvviso ho dovuto prendere il suo posto. Avevo 17 anni. Secondo le tradizioni e la cultura della mia etnia, quando muore il marito, la moglie non può uscire di casa per tre mesi. Mamma non poteva andare al mercato e le mie sorelle erano troppo piccole per vendere al mercato, senza essere accompagnate. Mi dovevo occupare di tutti e quasi di tutto.
Non avrei mai pensato di andare all’estero, tanto meno fare un viaggio che durò mesi, ma ero convinto di non avere altra scelta. Ero stanco di vedere mia mamma piangere, di faticare per vendere il necessario per poter mangiare quella sera. Ero stanco di sognare ma di non avere gli strumenti per realizzare i miei obiettivi. Ero stanco di immaginare quello che avrei potuto dare alla mia famiglia, in particolare alla mia mamma.
Insieme ad altri ragazzi e ragazze, sono partito nel 2017. Alla mamma ho detto:
Meriti di meglio e, se questo posto non ce lo offre, io vado a cercare di meglio fuori». Nulla mi avrebbe fatto cambiare l’idea. Ho abbracciato le mie sorelle e il mio fratellino e non sono più tornato indietro.
Alla ricerca di una nuova realtà
Fin dalla partenza, mi sono reso conto che nessuna donna avrebbe dovuto fare un viaggio simile. A nessuno importava se era uomo o donna, ognuno si preoccupava della propria sopravvivenza. Assicurarsi un posto nel barcone di gomma. Forse sto correndo troppo.
La prima fermata era il Kano, sempre in Nigeria. Alle ragazze è stato chiesto di comparsasi l’hijab perché per il prossimo stop sarebbe stato indispensabile coprire la testa. In Niger, poco più di 900 chilometri dalla Nigeria, cominciavo a sentirmi davvero lontano da casa, non solo fisicamente. Una volta che siamo arrivati ad Agadez, un comune del Niger, ho visto le ragazze raccogliere i cappelli nell’hijab che avevano comprato prima. Lì l’autista ci ha detto ciò che capitava ad alcune ragazze se non coprivano la testa. Va oltre una semplice usanza culturale. Era parte della gente di quel posto. Portare l’hijab significava essere rispettosi nei confronti del paese e dell’uomo. Abbiamo attraverso il deserto. I miei compagni di viaggio pregavano per un sorso d’acqua, il sole batteva forte.
Mi sono reso conto, una volta arrivato ad Agadez, che il viaggio sarebbe durato più del previsto. Siamo partiti in circa 17, però a Sabha, in Libia, siamo arrivati in 11. Una mamma ha dovuto rinunciare al viaggio perché il suo bambino piangeva così tanto che l’autista ha minacciato di lasciarci nel deserto se non fosse tornata indietro. Quella era la realtà.
In Libia sono stato arrestato. Ho passato 5 mesi in prigione. La violenza che avveniva in quel posto è indescrivibile. Si dice spesso dalle mie parti: “who no go, nor no”, cioè chi non c’è stato non conosce. Non avevo soldi per pagare il mio viaggio fino alla Libia, questo era il mio crimine: i soldi mancanti. In quello posto ho conosciuto tanti ragazzi, anche loro in cerca di qualcosa. C’è chi era lì perché era stato abbandonato da colui che avrebbe dovuto farli arrivare in Italia. Chi è stato rapito per riscatto. Nel peggiore dei casi, alcuni venivano presi in mare nel momento dell’imbarcazione dalla polizia navale libica. Rimpatriati o imprigionati. Sapendo ciò che so oggi e dopo aver vissuto nell’indifferenza quasi totale, la scelta era chiara: avrei preferito tornare a casa. In quei giorni, settimane e mesi passati in prigione, ho temuto per la mia vita, ho pensato spesso a mia madre, ai miei fratelli.
Il soggiorno in Libia
I ragazzi non fanno una vita facile in Libia. Ho capito subito che se non avessi imparato la lingua, non sarei mai uscito da lì. Dopo i cinque mesi passati in prigione, sono stato rilasciato. Ho cercato subito un’occupazione, ma non c’erano tante opportunità. Ero limitato come tanti altri perché non parlavo l’arabo. Non sono mai rimasto fermo a lungo, ogni giorno era un’occasione per darmi da fare. In due mesi ho imparato il necessario. Ho iniziato a lavorare in un autolavaggio. Ogni dinar (moneta libica) che guadagnavo veniva messo da parte per l’ultima tappa: Italia.
«Poter comunicare il necessario in lingua araba mi ha preparato all’eventualità che arrivassi in Italia. Non potevo non pensare a chi non ce l’aveva fatta, a chi è annegato nel mar Mediterraneo, a chi ha lasciato famiglia e tutto, come me, alla pericolosa realtà dell’illegalità».
Tanti sono morti, morti nel Mar Mediterraneo, mamme che sono ritornate indietro per i loro figli, uomini che hanno rinunciato al proprio posto sulla barca di gomma per quel ragazzino troppo giovane per rimanere indietro. Sempre nella speranza che non anneghi – Anonimo
Mi sono ripromesso che avrei dato il meglio di me se avessi avuto la grazia di arrivare sano e salvo. Avrei imparato la lingua e avrei raccontato la mia realtà di un viaggio che è durato un anno e sette mesi.
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